Il supplizio del clistere by Sonia – RACCONTI dei LETTORI


Posso definirmi una “schiava”, e lo sono per mia scelta già da diversi anni, e di ciò di cui parlo ho esperienze dirette quasi quotidiane. Ho sentito il bisogno di scrivere questa lettera perché mi è capitato piuttosto spesso di leggere, su riviste o in rete, racconti e confessioni di donne, o presunte tali, che descrivono esperienze erotiche in cui accettano di ricevere, se non addirittura subiscono, dei clisteri, ed invariabilmente la storiella termina, con grande soddisfazione per la vittima, con eccitazione ed orgasmi; siccome sono convinta che chi ha scritto queste cose quasi certamente non sia una donna, o comunque un clistere non sappia neppure che cosa sia, voglio invitare eventuali donne che non abbiano ancora mai provato quella pratica ma che siano tentate di farlo (coloro che hanno già fatto questa esperienza, anche una sola volta, non hanno bisogno di nessun avvertimento) a non lasciarsi abbindolare da simili favole, a meno che non siano profondamente masochiste, ossia non desiderino coscientemente soffrire, perché posso assicurarvi, avendonepurtroppo attualmente una frequente consuetudine, che normalmente subire un clistere è tutt’altro che eccitante e men che meno piacevole: è invece una cosa che, secondo il tipo che vi viene inflitto, va dal moderatamente brutto al terribile. Anche il più innocuo che dovessero farvi potrà magari essere sopportabile, questo sì, ma certo mai divertente; già soltanto la sensazione di sentire il liquido che scorre dentro di voi, riempiendovi il ventre in modo progressivamente sempre più doloroso, è molto più che un semplice fastidio, e la successiva evacuazione poi è una vera tortura. E per essere più chiara possibile vorrei descrivervi le mie esperienze in proposito.
 
Come penso sia accaduto a molte altre persone della mia età, cioè oltre i 30 anni, anch’io ho conosciuto il clistere da bambina; ho dovuto subire le prime perette da mia madre quando ero molto piccola, e credo di ricordare che me le abbia imposte, quando capitava che fossi costipata (e questo, essendo sempre stata piuttosto stitica, capitava purtroppo abbastanza spesso) forse in media una volta il mese, fino all’età di 9 o 10 anni. Ancora oggi, dopo tutto quel che ho accettato e provato in seguito, non ho dimenticato la disperazione che mi prendeva ogni volta che dovevo sopportare quel tormento; quando il mattino la mamma mi svegliava comunicandomi l’atroce notizia, cioè che avrei dovuto prepararmi a ricevere l’orribile peretta di camomilla, per me era un tuffo al cuore, una tragedia, era come ascoltare una terribile condanna: cominciavo subito a piangere e disperarmi, e continuavo a farlo per un’ora e più, finché tutto non era finito. Certo, per una bambina un clistere non può mai essere un divertimento; come tutti a quell’età avevo anche il terrore delle iniezioni, che pure sono cose da nulla, e quindi riconosco che sia normale il fatto che non potessi accettare facilmente il lavativo, però è indubbio che per me non si trattasse soltanto di un certo fastidio cui rassegnarsi, ma di una vera e propria lunga tortura, che iniziava con l’insopportabile introduzione della cannula (eppure era un tubicino sottile e morbido, ed oggi che sono abituata a ben altro mi fa quasi sorridere il pensiero che mi disturbasse tanto; però allora quella specie di microscopica sodomizzazione mi faceva soffrire e vergognare terribilmente: mi sentivo quasi paralizzata con quell’affare estraneo infilato nel sedere, che mi violava nel modo più intimo e umiliante), proseguiva con l’interminabile e dolorosa iniezione del caldo liquido (poca cosa in realtà, forse mezzo litro, se non meno) che mi gonfiava il ventre procurandomi un artificiale mal di pancia, e terminava solo quando mi ero completamente vuotata dopo una lunga e atroce serie di spasmi e crampi addominali. Ogni volta, sapendo sin dal primo istante cosa stavo per subire e conoscendo purtroppo bene le sofferenze che avrei patito di lì a poco, mi disperavo al pensiero di quale crudeltà mi aspettava; sapevo che sarei stata costretta a sopportare tutto ciò senza illudermi di potermi sottrarre alla diarrea forzata, e per tutti gli anni in cui ho dovuto subire quei clisterini non sono mai riuscita ad abituarmici minimamente né ad accettare almeno con rassegnazione quella tortura.
Ad ogni modo, come Dio volle, dopo i dieci anni circa quest’odioso tormento mi fu definitivamente risparmiato (forse da una certa età in poi non è più conveniente fare clisteri alle ragazzine? Ma perché mai gli adulti hanno pietà di una bambina di dieci anni e non di una di sei? Forse perché sanno che ad una certa età può trasformarsi in una pratica erotica?) e sostituito, quando necessario, prima con supposte di glicerina, che per quanto minore erano comunque un fastidio non da poco, e poi con più tollerabili purghe in confetto o in gocce, così che finalmente potei dimenticare la temuta pera di gomma. E quando dico dimenticare intendo nel vero senso della parola: praticamente scordai, per anni, che cosa fosse il clistere. Cancellarlo dalla memoria era certamente il modo più semplice per rimuovere e negare quelle brutte sensazioni dalla mia infanzia, e da allora, nelle rare occasioni in cui mi capitava di leggere o sentir pronunciare una di quelle ripugnanti parole (clistere, enteroclisma, lavativo, peretta, eccetera) dopo un improvviso brivido di disgusto pensavo subito ad altro e le eliminavo nuovamente dal mio vocabolario.
Dopo parecchio tempo, però, mi capitò di essere costretta a riprovare quest’esperienza: fu durante un ricovero in ospedale, quando dovetti fare una radiografia all’intestino. Mi avvertirono, il mattino del giorno precedente, che sarei rimasta digiuna quella sera ed il mattino successivo perché, in preparazione ai raggi, dovevo ricevere un enteroclisma di pulizia. Potete immaginare l’angoscia che sul momento mi procurò udire quella notizia: l’indomani avrei dovuto sopportare ancora quella cosa tremenda, lì, lontana da casa, in un ambiente estraneo, da mani estranee! Ma, imprevedibilmente, fu un’angoscia breve.
Avevo allora tredici anni e mezzo ed ero piuttosto sviluppata sia fisicamente sia psicologicamente, e soprattutto dal lato sessuale avevo le idee già abbastanza chiare a proposito dei miei gusti; dall’età di circa dodici anni in me era successo qualcosa d’importante: avevo cominciato lentamente a prendere coscienza delle mie tendenze, e ora mi rendevo perfettamente conto di essere masochista. Anche se il termine è imperfetto e generico non ho altre parole per definirmi: amavo e amo tuttora la sofferenza e la sottomissione fisica, e anche se a dodici anni vivevo questa cosa in modo ancora nebuloso e quasi soltanto a livello di fantasie, già allora l’erotismo mi stimolava solo se associato all’umiliazione e al dolore.
È ovvio che già dall’infanzia dovevo covare istinti devianti, e neanche troppo inconsci, visto che nei giochi mi è sempre piaciuto ricoprire ruoli passivi: quando giocavo con le amichette ero sempre io l’ammalata, la bambina punita, la subordinata, e non perché le altre mi costringessero a quei ruoli, ma perché mi sembrava ovvio e naturale che dovessero toccare a me, e mi offrivo spontaneamente a ricoprirli. Trovavo già allora eccitante, in una forma non ancora sessuale, naturalmente, il ruolo della vittima designata.
Un giorno, avrò avuto sei o sette anni, andai con mia madre in visita a casa di una conoscente che aveva un figlio della mia età. Mentre le mamme chiacchieravano in cucina, io e il bambino giocavamo in camera e ad un certo punto siamo finiti a rotolarci sotto il letto. Lì, al buio e nascosti, mi chiese di giocare al dottore e l’ammalata, e a me, per curiosità e gusto del proibito, sembrò naturale dirgli di sì con entusiasmo e lasciargli fare tutto quel che volesse. Come potete ben immaginare, data la nostra età, non successe nulla di particolare, ma è stata la mia prima esperienza che si può definire in qualche modo “erotica”. Sdraiata a pancia in giù, mi ha sollevato la gonna e calato le mutandine, e ha cominciato a toccarmi il sedere. Poi mi ha annunciato una puntura, alla quale io NON mi sono opposta, e mi ha dato un pizzicotto su una natica. Dopo di che il gioco finì perché mia madre venne a cercarci e noi fuggimmo fuori precipitosamente. Sono sicura che il fatto che non mi abbia toccata né vista davanti (cosa che probabilmente non gli avrei permesso) ma si sia dedicato solo al mio didietro, abbia contribuito alle mie future fantasie e tendenze: in fin dei conti, nel mio primo contatto fisico con un maschio, ero stata presa da dietro!
Sin dall’adolescenza, poi, ho fantasticato sul primo rapporto con un ragazzo immaginandolo quasi come uno stupro, sognando di essere posseduta con brutalità e di perdere la verginità dolorosamente, per arrivare infine ad eccitarmi al pensiero di essere realmente violentata e umiliata, tanto che quando poi la prima volta è giunta sono rimasta inevitabilmente delusa, perché non ho sofferto per nulla.
Posso quasi dire di ricordare il giorno in cui ho definitivamente preso coscienza di essere masochista: l’avvenimento per me cruciale, scatenante, è stato quando ho visto in televisione un film della serie di Angelica, nel quale l’eroina è ospite di un sultano orientale. C’è una scena in cui un’odalisca, che sta servendo il caffè, lo rovescia (volutamente, perché il sultano stesso glielo ha ordinato in precedenza) sull’abito di Angelica, fingendo che sia stato un incidente. Appena fatto il danno la schiava si ritira costernata, e poco dopo la vediamo legata e con la schiena nuda mentre è frustata tra le urla, e il sultano fa in modo che Angelica assista alla punizione per dimostrarle il proprio potere. Ebbene, io mi sono immediatamente identificata non in Angelica, che intercede per la povera e incolpevole odalisca, ma proprio nella serva crudelmente e ingiustamente punita, così ubbidiente e rassegnata al proprio destino da accettare di essere torturata solo per un capriccio del padrone, e da allora ho cominciato a sognare di essere punita a frustate. Essere spogliata, legata per i polsi e fustigata sul sedere mentre piango e grido, mi è sembrata da quel giorno la cosa più eccitante che potessi desiderare.
 
Quindi, a dodici anni, avevo già vinto da un certo tempo ogni lotta contro le mie tendenze e accettavo senza più combatterla questa mia natura che all’inizio, invece, mi spaventava; avevo allora solo fantasie di sottomissione, e nei miei orgasmi solitari sognavo di subire fustigazioni e crudeli stupri, soprattutto mi sentivo attratta da ciò che è “contro natura”, tanto che già allora avevo preso l’abitudine di sodomizzarmi da sola con diversi piccoli oggetti che mi facevano soffrire. La prima volta era stato con un dito, mentre facevo il bagno. Non è stato piacevole: pensavo che la penetrazione fosse dolorosa, e invece ciò che quel piccolo dito mi procurò non fu tanto un vero dolore quanto invece un fastidio lungo e ossessivo. Ho subito sfilato il dito, ma l’ano si era subito irritato, e ho avuto la sensazione, allora orribile, di avere ancora qualcosa infilata dentro per un’ora o due, e così per un certo tempo non ci ho più riprovato. Ma il fascino di quel fastidio mi aveva stregata, e il desiderio di subire ancora l’affronto di una penetrazione anale restava fortissimo, così, forse dopo una settimana o due, non ricordo esattamente, l’ho rifatto con un bastoncino, più liscio ma duro. Faceva appena più male ma il fastidio c’era sempre. Poco alla volta ho così cominciato a provare un’attrazione morbosa per quel fastidio e per quel dolore inizialmente lieve, ma che cresceva con il crescere delle dimensioni degli oggetti che usavo, e ho continuato a penetrarmi sempre più spesso con quello che più mi stimolava. Avevo infatti cominciato a collezionare ogni cosa che mi sembrasse adatta ad introdursi nel mio sedere procurandomi quella sensazione brutta ed eccitante di fastidio e poi anche dolore vero: penne, biglie, manici, ciondoli, cilindri, tutte cose di dimensioni decisamente modeste, ma col passare dei mesi cercavo di passare a calibri sempre maggiori per soffrire di più. Naturalmente non avevo ancora mai messo in pratica nulla di tutto ciò al di fuori del piacere solitario, ma sapevo già cosa avrei voluto in futuro dal rapporto con un maschio: dominazione e dolore.
 
Perciò, quel giorno in ospedale, anche se l’annuncio del temuto lavativo per i primi istanti mi terrorizzò, lasciandomi disperata e senza vie di fuga, perché mi riportava improvvisamente alla mente quelle pene della mia prima infanzia che ostinatamente avevo fino ad allora cercato di dimenticare, ben presto quella paura si trasformò in eccitazione crescente. Perché inaspettatamente, ora che per la prima volta dopo tanto tempo mi trovavo a dover pensare al clistere (perché ora c’ero proprio costretta, e questa volta non era una parola udita di sfuggita che potevo fingere d’ignorare), con un certo stupore mi resi conto che all’improvviso non ci stavo più pensando come all’incubo di quando ero bambina, bensì come ad una nuova occasione di sofferenza erotica.
Può sembrare strano, e riflettendoci me ne meraviglio io stessa, che in quegli anni di formazione del mio carattere sessuale non avessi mai preso in considerazione il tormentoso lavativo della mia infanzia, ma evidentemente il ricordo di quelle lontane iniezioni rettali, che tanto avevo odiato, era stato rimosso anche dalla mia nuova consapevolezza sessuale per tutto quel tempo, ed ora che improvvisamente mi trovavo a dover riprovare quell’esperienza tornavo a riconsiderarla, vedendola sotto una luce totalmente diversa. La temevo ancora, certo, e mi procurava sempre un brivido di ripugnanza, ma proprio per questo il pensiero che il mattino successivo avrei dovuto subire senza possibilità di scampo quell’umiliante tormento, e per mano di estranei, mi faceva girare la testa. In quel periodo sognavo praticamente ogni giorno, tra le altre mie fantasie perverse, di essere costretta da qualcuno, possibilmente da uno sconosciuto oppure da un’autorità superiore (il mio professore di ginnastica, spesso, o il nostro medico di famiglia), ad offrire il sedere per crudeli ispezioni anali e penetrazioni di supposte o di altri oggetti dolorosi, ed ora questo sogno stava per avverarsi, e in modo forse ancor più estremo: l’indomani un infermiere mi avrebbe davvero inserito nel retto un fastidioso strumento, magari (così speravo) di grosse dimensioni, deridendomi e sculacciandomi per i miei lamenti, e avrebbe unito a ciò l’ulteriore supplizio dell’iniezione dell’aborrito clistere.
Trascorsi quella giornata come ubriaca, andando più volte in bagno a masturbarmi nell’attesa spasmodica di ciò che avevo per tanto tempo temuto e rifiutato, e che ora d’improvviso ero follemente ansiosa di ritornare a subire. Cercavo d’indovinare come sarebbe stato, quale liquido avrebbero usato, addirittura speravo (tanto ero incosciente) che quello che m’aspettava fosse un clistere molto più fastidioso e doloroso di quelli della mia infanzia: qui non ci sarebbe stata la mano delicata della mamma a violare il mio tenero culetto di bimba, ma quella brutale di un insensibile infermiere che, anzi, sicuramente avrebbe provato gusto a maltrattare e far soffrire in quel modo crudele una bella ragazzina. E poi il liquido, mi auguravo, sarebbe stato abbondante e ferocemente purgativo, tanto da procurarmi un dolore alla pancia così forte da farmi piangere e godere. Fantasticavo una lunga, umiliante ed eccitante sofferenza, magari ripetuta più volte nei gironi successivi; arrivai persino a pensare di poter escogitare qualcosa perché me ne fossero prescritti altri, magari dichiarandomi stitica o accusando mal di pancia. Sognavo di presentarmi in infermeria, a capo chino, e umilmente chiedere la purga all’infermiere: “Sono due giorni che non vado di corpo e mi fa male la pancia; temo che sia necessario un altro clistere.” Avevo scoperto all’improvviso un nuovo genere di fantasia erotica che mi sembrava più eccitante di qualsiasi altra, e questa volta si sarebbe realizzata davvero, e ovviamente non vedevo l’ora che arrivasse il momento di provarla sulla mia pelle.
Purtroppo, quando quel momento così atteso giunse, le mie illusioni svanirono presto, e non perché i miei desideri di sofferenza non si fossero avverati, ma anzi perché fu una sofferenza tutt’altro che lieve o piacevole. Ero sveglia dall’alba in un’attesa frenetica; quando mi chiamarono in infermeria, alle nove circa, temevo quasi che si accorgessero, mentre entravo per il mio supplizio, di quanto ero eccitata: tremavo d’emozione e il cuore mi batteva all’impazzata. Fortunatamente per me, ammesso che se ne potessero accorgere, questi potevano benissimo essere presi anche per sintomi di paura e vergogna, ed io cercai di fingere di essere impacciata e preoccupata. Intanto non c’era, come logico, l’infermiere muscoloso e baffuto che avevo tanto sognato, ma due infermiere donne; comunque fui ugualmente subito entusiasta di stendermi bocconi, docile e remissiva, sul lettino a fianco dell’imponente serbatoio col tubo già pronto (uno strumento mai visto, molto diverso dalla peretta di gomma che avevo conosciuto anni prima, ma il suo aspetto minaccioso mi eccitava ancora di più), pieno di liquido opaco (chiesi timidamente cosa fosse, ed una delle due infermiere mi rispose sbrigativamente “Acqua e sapone.”), di farmi abbassare il pigiama fino alle ginocchia offrendo il sedere alla vista delle due donne, di sentire che una me lo allargava e che un dito unto di vaselina delicatamente mi lubrificava esternamente l’ano (purtroppo solo esternamente: sentirmi toccare, per la prima volta nella mia vita, da una mano estranea in quel punto mi faceva girare la testa, e avrei voluto che quel dito me lo avesse infilato anche dentro), mentre subito dopo l’altra m’introduceva la piccola punta dura (quell’irrisoria penetrazione che mi riusciva insopportabile da piccola ora invece era un piacere, anche se ovviamente non era stata per nulla dolorosa come avevo sperato: da sola, ai quei tempi, mi ero già abituata a introduzioni più sostanziose e penose). La sensazione contro natura, che già da lungo tempo avevo imparato ad apprezzare, di sentire un corpo estraneo insinuarsi nel sedere, era un piacere che m’inebriava; in quei pochi secondi mi sentii in paradiso, stavo vivendo l’esperienza più bella che mi fosse mai capitata: ero sdraiata, impotente, nelle mani di due estranee che mi stavano penetrando analmente! Come avrei voluto che quella piccola punta fosse stata larga il doppio; avrei dato non so cosa perché le due infermiere mi avessero sodomizzato in modo doloroso, senza riguardi, facendomi lamentare e piagnucolare, umiliandomi, deridendomi per i miei lamenti, sculacciandomi per farmi stare ferma! Sognavo, ma anche così ero eccitata come non ero mai stata in vita mia.
Sfortunatamente quel piacere durò solo un istante, perché non appena l’acqua insaponata cominciò a fluirmi nel ventre tutta la mia eccitazione svanì, e cominciò la solita insopportabile tortura di lontana memoria. Sapevo e ricordavo, ora che avevo DOVUTO ricordarlo, che il clistere era qualcosa di brutto, ma non avevo ormai più la memoria fisica di quale fosse l’esatta sensazione tanto odiata; e ora che il liquido mi risaliva a forza dentro il corpo la riprovai improvvisamente e sentii solo fastidio, dolore, gonfiore: come avevo potuto illudermi di poter trovare piacevole quella terribile esperienza? Era ancora e sempre un tormento odioso, impossibile da apprezzare in alcun modo, e trattenni a stento le lacrime. In un attimo la sofferenza che tanto avevo desiderato, ed ora provavo in tutto il suo disgusto, non era più eccitante ma terribilmente brutta e vergognosa, così umiliante e insopportabile che non desideravo altro che finisse presto, e pregavo di riuscire a resistere a quel disagio senza scoppiare a piangere e lamentami. Ad un certo punto, quando già speravo di essere alla fine dell’insopportabile somministrazione, l’infermiera che reggeva il serbatoio smise di chiacchierare con la collega e si rivolse a me per avvertirmi, con tono scherzoso, quasi allegro:
“Attenta, ora ti farà un po’ male la pancia… stringi i denti.”
Mentre io soffrivo disperatamente, mi sembrava che quelle due ridessero della mia pena, e mi considerassero solo una cavia, un piccolo corpo senza valore né dignità. E come quella alzò più in alto il serbatoio, facendo così intensificare il flusso, la pancia improvvisamente mi fece talmente male che non potei fare a meno di lamentarmi ad alta voce, piagnucolando:
“Ahi!… Basta, scoppio!”
Mi sembrava di stare subendo la più inumana e angosciante delle torture, mi sentivo perduta e senza soccorso, ma la donna, evidentemente abituata a simili lamenti, con voce quasi distaccata mi disse per blandirmi:
“Buona, buona, è quasi finito.” 
E continuò a riempirmi, mentre il ventre mi doleva sempre più ed io mugolavo stringendo i denti e soffocando i lamenti per non farmi sentire: ero disperata e stavo male, mi sembrava che stessero chiacchierando e si fossero dimenticate di me, anche se in realtà il tutto durò forse un paio di minuti, finché quella che teneva il tubo non decise che ne avevo sopportato abbastanza. Mi sentii dire:
“Un litro e mezzo, può bastare. Ora, se ci riesci, non andare subito in bagno, cerca di resistere più che puoi.”
Allora mi sembrava che la pancia mi scoppiasse, tanto era tesa e mi faceva male, e anche se ora so che non ero piena al massimo, il volume che avevo ricevuto era pur sempre molto più di quanto mi avesse mai imposto la mamma; perciò, quando mi misero un tampone di carta igienica tra le natiche, mi rialzarono il pigiama e potei finalmente sollevarmi in piedi, pensavo solo a correre in bagno al più presto, tenendo stretta la carta per non farmela addosso. L’umiliazione ora non era più eccitante come avevo pensato, ma era diventata una grande vergognosa sofferenza che mentre mi rivestivo cercavo di nascondere agli sguardi delle infermiere, sguardi che a me parevano sfrontatamente ironici benché neppure le guardassi in viso, tenendo anzi gli occhi bassi. Una volta raggiunto il gabinetto e finalmente seduta sulla tazza soffrii a più riprese per oltre un’ora, e infine lì, da sola, potei piangere senza ritegno.
Altro che sofferenza erotica! Quel clistere potente e abbondante era stato sì molto più brutto di quelli dei miei ricordi infantili, ma niente affatto divertente ed eccitante come speravo: soffrii e piansi senza provare un briciolo di piacere, e quando la pena si fu calmata (il che non avvenne tanto presto, perché anche quando l’intestino ebbe finito di tormentarmi, l’ano, irritato e stressato, continuò per alcune ore a darmi un certo fastidio; anche se questo era un fastidio che non mi dispiaceva, perché mi ricordava la sensazione irritante e penosa che seguiva ad ogni sodomizzazione con i miei giocattoli, purtroppo non potei abbandonarmi alla voluttà di quel che provavo come avrei altrimenti voluto, perché era inesorabilmente associato al pensiero ancora troppo fresco e terribile di cosa me l’aveva provocato) la sofferenza lasciò il posto ad una grande delusione per la mie fantasie frustrate, tanto che da allora per parecchio tempo non mi venne più l’idea di ripetere nuovamente una simile angosciosa esperienza.
 
Dovettero trascorrere alcuni mesi da quel giorno perché mi azzardassi a riprovare un lavativo. In realtà, nonostante la lunga, odiosa e vergognosa pena, i ricordi che mi restarono di quel giorno in ospedale non furono del tutto spiacevoli. Intanto, nei due giorni successivi durante i quali restai ricoverata, ogni volta che mi capitava d’incontrare una di quelle infermiere mi sentivo a disagio, provavo sempre una grande vergogna al pensiero di quello che mi avevano fatto, e davanti a loro mi accorgevo di arrossire; cercavo di non guardarle in viso ed abbassavo gli occhi pensando che loro mi osservassero beffarde, quasi deridendomi con crudeltà, ma questa vergogna MI PIACEVA, finiva con l’eccitarmi. Naturalmente quelle due donne, in realtà, non facevano affatto caso a me, e probabilmente non si ricordavano neppure del mio insignificante clistere, tra i tanti che ne avranno fatti quotidianamente, ma a me piaceva considerarle come le mie due crudeli torturatrici. Pensavo che se in futuro le avessi incontrate per strada sarei fuggita a nascondermi, e l’idea che esistesse realmente qualcuno che mi aveva fatta soffrire in quel modo mi sembrava eccitante. Poi nelle settimane che seguirono, anche se il ricordo del clistere in sé continuò ad essere quasi come un incubo, quella forte esperienza nel suo insieme (cioè il fatto di essere stata manipolata e tormentata come una cavia, denudata, lubrificata, soprattutto penetrata analmente) mi attirava ed eccitava sempre più. Ora che la cosa era passata, che era solo un ricordo, per quanto vivido, ripensandoci tornava ad essere  eccitante. Le mie fantasie si espandevano e sognavo sempre più spesso di essere nuovamente fatta sdraiare nel lettino dalle due aguzzine, magari di fronte ad una platea di medici o studenti che assistessero alla mia umiliazione, e poi penetrata posteriormente con inquietanti strumenti medici che mi facessero urlare e piangere di dolore. Ovviamente la mia fantasia si fermava a questo punto, cioè escludeva il clistere, ma questo solo nei primi tempi. Perché poi, a forza di associare le mie fantasie a quella situazione, finii lentamente, quasi inconsciamente, con il desiderare di riprovare anche il temuto e inevitabile enteroclisma, perché parte indispensabile della mia sevizia. Nei miei sogni potevo forse continuare a subire, e ancora più rudemente, quello che già avevo sperimentato, e al momento dell’apertura del rubinetto interrompere tutto? No, evidentemente: il clistere doveva necessariamente essere la punizione logica e conseguente per il piacere che tutto ciò che lo precedeva riusciva a procurarmi. Sognavo, con frequenza sempre più frenetica (in certi periodi mi masturbavo ogni sera), di essere chiamata in infermeria, dove mi recavo già in lacrime per il terrore, sapendo bene ciò che m’aspettava, e qui ero fatta spogliare, esposta, piegata sul lettino a fianco dell’enorme serbatoio, impalata con una punta gigantesca che mi strappava urla di dolore (e, così fantasticando, spesso realmente mi penetravo analmente con oggetti piuttosto voluminosi per la mia capacità), sculacciata, e quando l’orgasmo era vicino mi rassegnavo a sopportare il tremendo clistere, caldo, interminabile, bruciante, che mi faceva piangere tutte le lacrime che avevo. Tuttavia queste restavano sempre fantasie che si fermavano all’autopenetrazione, senza avere mai il coraggio di fare davvero quel passo, ossia di praticarmi da sola un vero clistere.
Almeno fino al giorno in cui, quasi per caso, scovai dentro una scatola nel ripostiglio di casa la vecchia pera di gomma, da tanto tempo ormai inutilizzata. Quella stessa pera che fino a tre anni fa tante volte mi aveva fatto tremare e piangere, che tante torture mi aveva causato, ora era lì a mia disposizione. Trovarmi improvvisamente tra le mani l’aborrito strumento dei miei lontani lavativi (pur avendola subita tanto spesso da bambina quella era la prima volta in vita mia che la toccavo, almeno con un’altra parte del mio corpo che non fosse l’ano) mi fece battere il cuore, all’inizio di ribrezzo, ma subito, palpeggiando quella gomma liscia ed elastica, minacciosa, anche di attrazione; non riuscivo quasi a riporla, tanto mi emozionava impugnarla, come fosse un magico strumento di potere, e quella scoperta mi ossessionò per giorni: avevo in casa un attrezzo per clisteri, sapevo dov’era e avrei potuto prenderlo e usarlo quando avessi voluto. Così quella sera, ripensandoci continuamente e morbosamente, decisi infine che non potevo sfuggire al fascino di quell’orrore, e che non avrei potuto fare a meno di soffrire ancora una volta per mezzo di essa. Perciò un paio di giorni dopo, alla prima occasione in cui mi trovai in casa da sola con tutto il pomeriggio davanti a me, preparai in una bacinella un paio di litri di acqua calda molto insaponata, presi la pera, la riempii e mi iniettai a più riprese il clistere. Mi imposi di resistere finché non mi fossi somministrata tutto il liquido e, già piagnucolando, mi gonfiai poco alla volta il ventre. Ma ancora una volta continuavo a trovare questa pratica odiosa e insopportabile: soffrii più che mai, forse più ancora che in ospedale, e allora riposi la pera per sempre e giurai che non avrei mai più subito un clistere in vita mia.
Ora potete immaginare cosa abbia significato per me due anni fa, ormai adulta e da molto tempo definitivamente votata e dedita alla sottomissione, sentir dire dal mio nuovo padrone (che poi è l’attuale, ma che allora conoscevo solo da pochi giorni), mentre mi ordinava di spogliarmi e sdraiarmi bocconi nel letto, che stavo per ricevere un clistere, e sentirlo anche aggiungere spietatamente, al mio spontaneo lamento di sorpresa e sconforto, che se la cosa non mi piaceva avrei fatto bene ad abituarmi presto all’idea, perché aveva intenzione di farmi subire molto spesso questa angheria (come lui la definisce) in tutte le sue varianti più crudeli.
Sono ormai già da anni abituata a diversi soprusi e tormenti, alle mollette ai capezzoli e alle labbra, alle punture di aghi, alla cera calda, soprattutto ad essere battuta e sodomizzata in vari modi come faceva il mio primo precedente compagno e padrone (frustino, battipanni e paletta erano strumenti che mi strigliavano spesso il sedere, e il suo membro e anche oggetti di calibro molto maggiore mi penetravano analmente più di una volta la settimana), e riesco a tollerare piuttosto bene queste pratiche, che mi fanno soffrire ma che anche, fondamentalmente, mi piacciono da sempre. I clisteri che ora mi si prospettavano, invece, continuavano a farmi inorridire. L’ipotesi di rifiutarmi non era neppure da prendere in considerazione, ed io non volevo affatto sottrarmi ai voleri del mio nuovo padrone, con il quale vivevo da neppure una settimana e al quale avevo fatto giuramento solenne d’obbedienza assoluta appena il giorno precedente, ma a sentire quello che mi aspettava nell’immediato e prossimo futuro fui presa da uno sconforto tale che a fatica trattenni il pianto. Mi terrorizzavano le parole che mi aveva detto così implacabilmente: non si trattava di sopportare per una volta quella prova detestabile (non ero più una ragazzina, e l’avrei tollerato pazientemente e coraggiosamente se si fosse trattato di un solo clistere isolato) ma di rassegnarmi ad un futuro di lavativi frequenti, e certamente dei più tormentosi. Mi risuonava freneticamente nella testa quella sconfortante minaccia: che avrei dovuto subirlo molto spesso e in tutte le sue varianti più crudeli. Mi domandavo come avrei potuto sopportarlo e, soprattutto, come potesse essere più crudele di quelli che già avevo sperimentato e ricordavo ancora fin troppo bene.
Così, mentre il mio sedere nudo attendeva questa temuta prima somministrazione (prima di una lunga serie, purtroppo, e senza sconti), e io cercavo di farmi forza per prepararmi ad affrontare il mio futuro e inevitabile destino di pena, lui capì, forse dal mio pallore, o dal mio tremito, o da qualche sospiro sincero che non potei nascondere, di avere toccato un tasto particolare, perché prima di procedere mi chiese come mai mi sgomentasse tanto e se ne avessi mai ricevuti prima di allora. Allora gli raccontai tutto quello che vi ho appena descritto, confessandogli apertamente quanto soffrissi e temessi questa pratica per me insopportabile: forse speravo ingenuamente di riuscire ad impietosirlo e indurlo così a risparmiarmi questo supplizio, ma fu invano (anzi, può darsi che la mia confessione lo eccitasse ancora di più). Mi assicurò, per niente intenerito dalla mia ammissione di paura, che se le cose stavano così significava solo che mi aspettava un futuro di tormenti. Quindi preparò l’attrezzatura ed ebbe inizio la cerimonia; dovetti subire e soffrii come non mai: dopo aver resistito e sopportato qualche minuto con dignità e rassegnazione, al crescere della sofferenza piansi, gridai, supplicai, piansi ancora mentre sopportavo un enorme volume di quasi tre litri, molto caldo e purgativo. Mi umiliò, quella volta e le successive, in ogni modo, costringendomi a trattenere dentro di me quel mare in burrasca per quasi mezz’ora, assistendo alle mie pene durante l’evacuazione, tormentandomi e deridendomi, minacciandomi e promettendomi sofferenze ancora maggiori per le volte future. Minacce che ha mantenuto regolarmente, utilizzando punte rettali enormi, miscele purgative dolorosissime (non so dove abbia trovato certe ricette, ma spesso compra delle sostanze in erboristeria con le quali prepara dei decotti terribili!) e quantità di liquido che mi dilatano il ventre fino alle lacrime.
Da allora ne ricevo generalmente tre o quattro al mese, ma in certi periodi devo subirne anche uno al giorno, e vi giuro che ogni volta piango come una bambina. All’inizio mi sono domandata più volte se non ci sia la possibilità di farci l’abitudine, o almeno di imparare ad accettarlo meglio e soffrirne di meno; dopotutto, mi dicevo per tentare di convincermi, non è altro che una pratica medica: se le madri lo impongono ai propri figli non può essere poi tanto terribile. Ma perché allora io ne soffrivo così tanto da bambina e ancora oggi non lo posso proprio sopportare (e purtroppo, invece, DEVO sopportarlo)? Può forse significare che io ne sono particolarmente sensibile, e mentre è possibile che per la maggior parte delle persone sia qualcosa cui ci si può abituare, e arrivare addirittura a goderne, per me debba restare sempre un tormento? Non credo e non mi sembra probabile che si tratti di idiosincrasia personale. La verità, penso, è che forse oggi, dopo quello che ho dovuto e devo subire tanto spesso, potrei anche arrivare a sopportare abbastanza bene le delicate perette di camomilla della mamma, e se dovessi ricevere solo simili clisteri può darsi che col tempo, con pazienza e rassegnazione, riuscirei a tollerarli senza soffrirne troppo; ma gli enormi lavativi irritanti che io devo ricevere attualmente tanto spesso non è possibile che possano essere definiti piacevoli neppure dalla più perversa masochista, e abituarcisi, per me come per chiunque, ne sono certa, non è possibile: questo orrore è e resterà sempre una crudele tortura.
Se qualcuna non mi crede provi pure a farsene uno, magari di due litri d’acqua con un chilo di miele, o di soluzione salata satura, o di limone puro, o di un infuso di quelli che devo subire io, e poi mi faccia sapere se ho esagerato o no. Se invece ci fosse qualche compagna di sventura, qualche schiava che come deve subire spesso questa tortura, che potesse insegnarmi a convivere meglio con questo tormento, almeno senza soffrirne così tanto, i suoi consigli sarebbero benedetti e sarei disposta a tutto pur di averli.
Quindi attente: se il vostro uomo vi chiede di subire questa prova e avete la possibilità di rifiutarvi, pensateci cento volte prima di accettare, perché, di qualunque genere sia il lavativo che vorrà infliggervi, sappiate che sicuramente NON è un divertimento. Se invece non potete proprio rifiutarvi, cercate almeno di convincere il vostro torturatore a praticarvene uno di non più di mezzo litro, e di semplice acqua tiepida o appena insaponata con sapone di Marsiglia. Soffrirete, ma in modo tollerabile, e non vi ridurrete piegate in due dagli spasmi ad implorare pietà mentre vi sembra di morire.
Siccome ho scritto questa lettera in ufficio e di mia iniziativa, senza chiedere il permesso al mio padrone, temendo che me lo avrebbe negato, non posso darvi altra indicazione su di me che l’indirizzo e-mail. Se qualcuna vuole scrivermi i suoi consigli, può farlo a: ssonia5@hotmail.com

Tags: No tags

31 Responses